Arte antisovranista e rigurgiti identitari: le mostre come strumento per scompaginare miti feticistici e autoreferenzialità

di Francesca Cagianelli

Un tantino stalkerizzati da certe campagne-stampa finalizzate al rigurgito identitario, tipo compleanni, anniversari, ecc., ecc., ci volgiamo laicamente all’istanza di nuove strategie espositive, e amiamo farlo nell’occasione della mostra fortemente voluta, tenacemente pensata, faticosamente e ambiziosamente realizzata, nel più totale ostracismo al ripiegamento emozionale verso l’aneddoto autobiografico, ovvero L’incanto di Medusa: Charles Doudelet, il più geniale interprete di Maeterlinck tra il Belgio e la Toscana.
Vi presentiamo dunque, con augurale e provocatorio intendimento, una brevissima riflessione sulla Livorno europea di Doudelet, quella che Modigliani non riuscì a percepire.
Periferica ma non provinciale, vibrante di dannunzianesimo e spavaldamente Belle Epoque nel segno della sharade di Leonetto Cappiello, protesa eroicamente verso le avanguardie francesi, iberiche e sopratutto nordiche, come da tempo si è dimostrato, battagliera e rivoluzionaria, la Livorno cui Modigliani volta le spalle nel 1903, con il comporto dei successivi soggiorni estivi, alla volta, prima di Venezia e quindi di Parigi, nascondeva in realtà destini europei.
Vi si era affacciato forse già dal 1900, sicuramente entro il 1905, Carlo Böcklin, figlio del geniale Arnold, protagonista esclusivo e indiscusso del simbolismo svizzero, che aveva stretto amicizia con Gino Romiti, trasmettendogli tutto lo sturm und drang tipico delle brume nordiche, mentre Romolo Romani, l’espressionista milanese scomparso prematuramente e destinato a catalizzare umori secessionisti, aveva solidarizzato a tal punto con Benvenuto Benvenuti da donargli alcuni splendide testimonianze della sua internazionale verve caricaturale.
Un cenacolo, quello consolidatosi nella Livorno primonovecentesca, ormai storicizzato sotto la sigla dello storico Caffè Bardi, che anche un intellettuale quale Valentino Piccoli rievocava nel 1927 sulle pagine del Telegrafo, attraverso “lo sguardo buono, sognante” di Vittore Grubicy, che per primo gli parlò di Livorno “come d’un singolare centro d’arte: raccolto ma intenso, solitario ma audace”, e al fianco del quale il dannunziano Enrico Cavacchioli aveva trascorso la sua eversiva giovinezza letteraria proprio nel 1903.
Una Livorno dunque candidata a interloquire con l’intellighenzia italiana, dalla quale lo stesso Charles Doudelet rimase letteralmente stregato visto che, giuntovi nel 1908, doveva restarvi fino al 1923, diffondendovi bagliori di esoterismo.
E se prima della partenza di Modigliani da Livorno Romiti aveva già ideato i suoi capolavori simbolisti, in primis quell’Armonia di suoni esposta alla Biennale di Venezia del 1903 che dialogava ambiziosamente con i padri dell’esoterismo internazionale, in particolare Jean Delville, così come Benvenuto Benvenuti aveva già avviato la sua ricognizione sugli stilemi decorativi della Secessione viennese e dell’Art Nouveu belga, resta da capire come tale densità e prolificità di destini creativi non venne percepita da Modigliani che tra tutti scelse solo la continuità affettiva e spirituale con Oscar Ghiglia, mentre Doudelet doveva optare per un sodalizio indelebile oltre che con lo stesso Romiti, soprattutto con l’audace ed alchemico Gabriele Gabrielli e l’emancipato Benvenuti.
Non resta quindi che rileggersi – invito caldamente esteso a tutti coloro che indulgono nelle solite agiografiche e consolatorie letture storiografiche – quella mirabile monografia firmata da Doudelet sull’opera benvenutiana e constatare come il “turbamento” sottesi ai suoi solitari paesaggi, scaturito da “un brivido nato quando di notte un dito si posa per un istante sul vetro della finestra” fosse percepito dal finissimo orecchio, peraltro aduso al silenzio, del maestro di Gand, mentre doveva fatalmente sfuggire a Modigliani, inebriato dall’assordante frastuono di Montmartre.
Doveroso quindi augurare di procedere d’ora in avanti a una rilettura del territorio al di là dei miti feticistici della solita storia dell’arte consacrata, e anziché indulgere nell’ormai sondata vicenda delle celebrazioni montmartrois, addentrarsi invece nelle ignote brume nordiche del maestro di Gand, e quindi perdere la rotta per incamminarsi finalmente verso quella sospensione e quel turbamento che secondo Doudelet costituiscono l’interruzione fatale rispetto all’imbecillità del quotidiano.

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